Recensioni

Serge Latouche
Decrescita o barbarie
Castelfranchi, Irruzioni 2018 - ISBN 9788832824315

[Exibart 1 gennaio 2020]

Che mondo è quello in cui viviamo, che per ‘svegliarsi’ ha bisogno del j’accuse di Greta Thumberg, - la diciassettenne svedese divenuta famosa per il suo Skolstreik for klimatet -, un’attivista che fa dello ‘sviluppo sostenibile’ la sua battaglia quotidiana?
A sentire Serge Latouche, ispiratore della ‘decrescita’, la prima cosa da fare discutendo di quest’ultima, è sgombrare il campo da equivoci. Vuol dire esercitare una critica radicale ai concetti fondamentali su cui si struttura la visione del mondo odierno, a partire dall’economia, che secondo l’economista e filosofo francese, animatore della Revue du Mauss e professore emerito di Scienze economiche all’Università di Parigi XI, va completamente riveduta, o più precisamente da cui bisogna uscire. Fare chiarezza vuol dire prendere le distanze dall’approccio dogmatico apologetico e messianico, dall’approccio reazionario che interpreta la decrescita come un colpo di spugna contro la modernità, la democrazia e la sinistra. Considerazioni queste ultime, ben sottolineate da Roberto Mancini nell’introduzione a Serge Latouche. Decrescita o barbarie, edito da Castelvecchi. Così – precisa Mancini - per evitare che la decrescita venga banalizzata “è necessario sgombrare il campo dagli approcci di lettura impropri e fuorvianti. Il più diffuso è l’approccio modernista di chi accetta l’economia capitalista e respinge la decrescita perché vi ravvisa un’utopia antimoderna, ispirata dalla nostalgia per un modello arcadico di società.”
Fare chiarezza sembrerebbe un prerequisito essenziale per districarci nel groviglio del mondo attuale.
Dall’intervista tra Josè Bellver e Serge Latouche, tradotta in italiano da Gavina Falchi, emergono molteplici spunti di riflessione. Per Latouche lo ‘sviluppo sostenibile’, il New Deal Verde, sono graziosi ossimori, ‘strategie verbali’ che tutto sommato non modificano il funzionamento del sistema. Se si parla di decrescita bisogna intenderla come una radicale uscita da un paradigma che ha elevato a valore assoluto il concetto di accumulazione indiscriminata, fiore all’occhiello del pensiero unico della mercantilizzazione del mondo. Ora, se La nostra casa è in fiamme, - come recita il titolo di un libro della Thumberg, scritto a quattro mani con i suoi, (Mondadori)-, quali saranno le azioni da compiere, le priorità da mettere con urgenza in agenda per salvare il pianeta? In che modo rivedere il concetto di economia? Cosa significa, in definitiva, “uscire dall’economia?” Latouche afferma che  “se ‘economia’ equivale a culto della crescita, uscire dall’economia significa dire addio a tale culto, riorientando il lavoro e le attività sociali secondo criteri dell’armonia, della giustizia, della pace. Inoltre si tratta di uscire dall’economia come sfera separata che perde il suo contatto con il resto della vita umana.” Insomma, bisogna ripensare tutto, e Latouche lo fa vergando le famose “8 R”, che come puntualizza nell’intervista, - realizzata da Josè Bellver per la rivista “Diagonal”- corrispondono a otto verbi, otto tipi di azione: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare.
Naturalmente, non si tratta di un approccio ‘controcorrente’, di regressione; piuttosto far avanzare una società inedita, più avanti rispetto alla modernità e all’occidentalizzazione del mondo. Del resto,  direbbe il filosofo Umberto Galimberti, l’occidente è al tramonto: vale a dire il tramonto di una cultura basata sullo zoccolo duro del nichilismo ove si erge il mercato che fa della crescita il suo mantra principale: produrre continuamente, per portare al nulla le cose stesse il più rapidamente possibile. Si tratta di quella ‘apoptosi’, morte già programmata, - come i telefonini che abbiamo in tasca -, che consentono al mercato di accendere la frenesia del nuovo, al di là dell’effettivo bisogno; insomma,del nuovo a tutti i costi.
Dunque un progetto, quello della decrescita, in cui è centrale il valore politico, da intendere come esercizio della cura per il bene comune e non come acquisizione del potere per il potere; come dire che l’unica giustificazione del potere è quella di consentire la fioritura umana del singolo e delle comunità in accordo con la natura. Un ideale, quest’ultimo, purtroppo ancora lontano da raggiungere, nonostante sia sancito da molte carte costituzionali o dalla Dichiarazione di Amsterdam del 2002. Senza dimenticare, direbbe sempre Galimberti, che l’avanzata pervasiva della tecnica, - massima capacità di pensiero razionale mai raggiunta dall’uomo -, condizionante gli aspetti della tecnologia e dell’economia, fa dell’umanismo un ideale sempre più inesorabilmente ridotto a un lumicino. E dunque in questo quadro difficile, e in buona parte devastante, è anche necessario chiedersi quali intrecci sussistono tra l’arte e la decrescita, se ci sono nessi; o l’arte va per la sua strada e il mondo, con i suoi problemi, dall’altra? Domandarsi se l’arte può essere vissuta come baluardo di resistenza, e in che forme.


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