[Exibart 20 novembre 2012]
Frescoditesta è un  personaggio, o meglio, un espediente letterario messo in campo da Tiziana  Andina per dipanare un problema di lana caprina che si perde nella notte dei  tempi: “Che cos'è arte e cosa non lo è?”
  L'autrice di Filosofie dell'arte. Da Hegel a Danto. Carocci Editore 2012, immagina che  il tale Frescoditesta, per entrare in possesso di un immenso patrimonio  di opere d'arte, frammiste a oggetti d'uso quotidiano (accatastato da uno zio  burlone e un po' perfido) debba, per volontà testamentaria di quest'ultimo, saper distinguere le opere dagli oggetti comuni: il tutto senza l'ausilio di  esperti, avvalendosi esclusivamente del suo ingegno o di qualche libro.  Insomma, una vera e propria impresa, considerato il fatto che il protagonista  si trova di fronte ad una collezione che comprende reperti antichi, vasellame,  suppellettili, quadri d'ogni epoca, copertine di LP, un grosso squalo in  formaldeide e quanto altro.
  La storia inizia col  Frescoditesta che, gira e rigira, finisce per imbattersi nelle Lezioni di  Estetica di Friedrich Hegel.
  È chiaro che le vicissitudini del protagonista esplicitano la metafora del pubblico di media cultura,  quando si trova di fronte all'arte contemporanea.
  Tiziana Andina mette in luce, in  maniera esemplare e capillare, il cammino compiuto dalla filosofia per definire il concetto di arte. Emergono i sottili intrecci creati dai filosofi nel corso  dei secoli. E si parte da Platone, dalla sua recalcitrante posizione nei  confronti dell'arte, che nell'imitare le apparenze si allontana dalla verità.  Si è all'inizio di quella teoria imitativa – avallata e ampliata dalla definizione  emozionale dell'opera, dallo stesso Aristotele – il cui successo si  protrarrà fino ad Hegel, per il quale la bellezza dell'arte (che non è oggetto  d'indagine dell'Andina) è frutto del lavoro dello spirito. Ma, ci avverte  l'autrice, c'è il filosofo Nick Zangwill che di recente ha sostenuto che potrebbero  esserci parecchi concetti di arte da analizzare. Un pluralismo, dunque, che  riporta a galla i dubbi, forse gli stessi che hanno ispirato le avanguardie  storiche le quali, con l'esercizio effettivo dell'arte, hanno affossato su più  fronti la teoria imitativa.
  Dunque le teorie si rinnovano e  per il filosofo urge individuare la struttura ontologica che sostanzia il  concetto di arte. In tal senso, Heidegger e Gadamer hanno radicalizzato la  questione, spostando il centro della domanda dal che cos'è l'arte a quando  ha origine l'opera, concludendo che in quest'ultima la verità si dà  come evento, non raggiungibile per nessuna altra via. Con buona pace di  Platone.
  Tiziana Andina arriva al nocciolo  della questione filosofica del Novecento, relativa a ciò che conta come  opera, asserendo che lo Scolabottiglie firmato Duchamp, e Brillo Box autenticato da Warhol, sono indiscernibili (e comunque diversi) rispetto ad un  qualsiasi scolabottiglie o un qualsiasi Brillo Box esposti in un negozio. A  questo punto, sostiene la filosofa, accennando alle ricerche di Arthur Danto, la  necessità di riconcettualizzare il dominio delle opere d'arte diviene manifesta.
  Come la fisica subatomica, anche  l'arte del Novecento ha avuto i suoi paradossi, e si sa che il paradosso nasce  dalle premesse insite nella domanda posta: come dire che in campo giocano più  fattori: l'incontro tra la mente, l'oggetto e il contesto  storico-culturale. L'apprezzamento estetico di un oggetto d'arte – afferma  il filosofo americano Georgie Dickie – dipende da una serie di contesti e  procedure, tra cui quella di imporre una funzione alle cose. Con ciò  siamo in piena teoria istituzionale. E il mondo dell'arte? Una  quasi-istituzione: cioè, qualcosa che oscilla – secondo la classificazione di  Jeffrey Wieand – tra A-istituzioni e P-istituzioni(dove “A” sta per azioni e  “P” per persone). Pertanto – sostiene Tiziana Andina – la tesi da cui muove  la filosofia dell'arte è che i nostri sensi da soli non sono sufficienti a  risolvere il paradosso del Brillo. Il mondo dell'arte ha il potere di conferire statuto di artisticità a quegli artefatti speciali (hanno uno  scopo comunicativo, secondo la teoria artefattualista di Randall Dipert) proposti  dall'artista. Si ritorna, in tal modo, al problema dalla definizione dell'arte,  che sfugge ad ogni possibile ingabbiamento concettuale; compresa la teoria  emozionale che, secondo l'autrice, sembra fare acqua da tutte le parti.  D'altronde anche le teorie neowittgensteiniane, portate avanti da  William Kennig, Morris Weitz, ci inducono a riflettere sull'impossibilità di  addivenire ad un insieme di proprietà necessarie e sufficienti da  applicare all'idea di arte, dalla quale è forse indispensabile distogliere la  mente riflessiva da un concetto chiuso a favore di un concetto  allargato; tutt'al più, conviene abbandonare la pretesa di definire e affidarsi alla riconoscibilità dell'opera tramite il concetto di somiglianza  di famiglia esprimendo un giudizio di valore sulla qualità  dell'opera. Il destino, della filosofia dell'arte, a questo punto sembra quello  di risolversi nella critica, nella storia dell'arte come narrazione.  Si può sostenere, aggiungiamo noi –citando le parole del filosofo Sergio Givone  – che la filosofia, una volta abbandonato il sogno improduttivo di farsi  scienza, dovrà riconoscere che di essa si decide nel mondo della vita, nel  linguaggio ordinario e dunque della scrittura.