Testo in catalogo Antologica al Gam di Gallarate [13 febbraio – 21 marzo 2004]
L’analisi della poetica di Ernesto Jannini ci consente di gettare uno sguardo radiante sulle vicende dell’arte negli ultimi trent’anni, in quel lasso di tempo, quindi, che ne ha segnato l’ingresso in una delicata fase di passaggio, nella quale siamo ancora in buona parte immersi, seppure in presenza di una situazione che all’oggi pare in inquieta mutazione. Jannini, pur essendo ancora relativamente giovane all’anagrafe ed in considerazione delle vicende caratterizzanti il sistema artistico italiano degli ultimi vent’anni, tali da creare uno stallo generazionale, complice anche un esordio precoce, ed una costante vivacità e curiosità intellettuale, testimonia con il suo lavoro tutte le principali vicende di un “fine secolo” che ha di pari segnato l’ingresso in una nuova epoca. Le prime esperienze artistiche di Jannini sono indissolubilmente legate a Napoli, sua città natia, ed agli ambienti della Facoltà di Architettura e dell’Accademia di Belle Arti, in quegli anni fucina di artisti, molti dei quali, pur nella successiva itineranza creativa ed esistenziale, manterranno fede ad una unità di azione e ad una complicità intellettuale che, tra l’altro, costituirà il nucleo fondante della rivista “Juliet”. La Napoli di quegli anni non assomiglia molto a quella della “rinascita” di vent’anni dopo, dove pure non mancano problemi e contraddizioni anche stridenti, ma in cui non si può non riscontrare un’ambizione di riscatto, evidenziata anche e soprattutto dall’attenzione per l’arte contemporanea e, più in esteso, dalla volontà di tutela e valorizzazione del patrimonio artistico ed ambientale. Negli anni ’70 apparivano evidenti, in una situazione di recessione economica globale, le ferite inferte dalle tumultuose ed incoerenti opere di industrializzazione ed urbanizzazione degli anni precedenti. Jannini, assieme a vari compagni di strada, dà vita ad un collettivo artistico siglato “Humor Power Ambulante”, dedito ad operazioni di arte ambientale in cui l’impegno principe era costituito dalla volontà di coinvolgimento della popolazione in una chiave didattica avente come fine lo stabilirsi di una nuova consapevolezza sociale, tramite la realizzazione di “performances” e la produzione di opere prodotte prevalentemente con l’ausilio di materiali di recupero con uno stile programmaticamente “povero”, quindi apparentemente sintonico alla tendenza prevalente di quegli anni. Non a caso Jannini ed il gruppo degli “Ambulanti” saranno invitati a partecipare alla Biennale di Venezia del 1976, curata da Enrico Crispolti, proprio sul tema “Ambiente come sociale”. La poetica di Jannini già in quegli anni, pur nella residua adesione a quelle istanze di rigore comportamentista cifra mentale ed operativa di una stagione, introduceva nell’assemblaggio delle sue opere, e finanche nelle sue azioni performative, sempre mediate da insolite ed ironiche “protesi” integrative all’intervento semplicemente corporeo, corposi indizi di quella che era ormai una inarrestabile mutazione del volto dell’arte, proteso verso un radicale cambiamento, sebbene modulato su una scala di gradualità. Dopo il 1975 la situazione muta radicalmente di segno. A seguito soprattutto del rigido rigore del concettuale di matrice analitica e tautologica, dove si manifestava una evidente prevalenza dei significanti sui significati e l’assenza di una dialettica con l’esterno, con l’opera proposta al grado zero, nella sua nudità formale e compositiva, e l’assoluto divieto, sancito dai severi sacerdoti del dogma, dell’introduzione di sia pur minime componenti manuali e decorative, si verificò un’implosione di quello stile, e la lenta ed inesorabile deriva verso altri territori, in sintonia con la costante ciclicità degli eventi artistici. I lavori di Jannini dagli anni ’70 fino ai primi anni ’80 denunciano con evidenza questo clima in mutazione. Il riferimento concettuale si estrinseca prioritariamente attraverso la poetica tendente all’utilizzo di strumenti artistici provenienti dal riciclo di oggetti “poveri”, di recupero, oppure insoliti e legati ad un minimalismo di gesti di vestizione quotidiana come i calzini. Di pari, però, l’artista equilibra la nudità “secondaria” di questi oggetti con l’introduzione di dosi consistenti di “primarietà”, ad esempio dilatando la superficie dei calzini fino a metterne in risalto involontari ed insoliti motivi geometrici, e poi dipingendo queste nuove forme plastiche con colori accesi ed iconografie archetipe. Il Jannini dei primi anni ’80 fa tesoro di queste esperienze giovanili, sulle quali mi sono soffermato in quanto mi appaiono sintomatiche della sua poetica complessiva, ponendosi in naturale sintonia con quelle che all’epoca erano le coordinate artistiche generali, ed in seguito accodandosi alle successive senza forzature, con moto spontaneo e stile assolutamente originale. Tra la fine degli anni ’70 ed i primi anni ’80 prende corpo ed evidenza la svolta post concettuale dell’arte, con l’esplodere di movimenti radunati attorno alle parole d’ordine del ritorno alla pittura, di matrice visceralmente neoespressionista od infarcita di valori simbolici e decorativi e, in generale, del ripristino di una manualità dal sapore antico, nell’accezione etimologica originaria della “technè”. Le opere di Jannini in quel periodo riprendono temi e motivi precedenti per congiungersi elettivamente con lo stile che più chiaramente anelava ad un ritorno a valori pittorici primari. Il procedimento che in precedenza era adoperato dall’artista per costruire le sue installazioni e le sue sculture portatili si riconverte ad una dimensione formalmente più compiuta. Jannini realizza “scudi” di ampie dimensioni, dipinti con tinte vive e squillanti, in cui il richiamo ad un immaginario archetipo ed immortale, collocato all’origine dell’evoluzione umana in forme organizzate, appare curiosamente integrato e parzialmente contraddetto dalla presenza, sulla superficie, di regolari e simmetriche estroflessioni, tali da ricordare i cinetismi di autori quali Bonalumi e Castellani. Successivamente alla proposta delle imponenti strutture ancestrali medianamente poste tra scultura ed architettura, un’architettura primaria, dell’origine, dopo essersi abbeverato alle fonti sorgive del pensiero e del mito, Jannini pone nuovamente il suo sguardo a ridosso del presente, senza fissarlo percettivamente sull’immediato orizzonte, ma facendolo come di consueto ruotare a trecentosessanta gradi. A partire dal 1984 l’arte fa il suo ingresso in una fase dove la prevalenza è senza dubbio quella di un eclettismo stilistico in cui non predomina un’opzione ma ne convivono insieme molte, con fasi alterne in cui si avvantaggia un aspetto estetico su di un altro.Una caratteristica comune, fino ai giorni nostri, è il rapporto di amore-odio che l’arte intrattiene con lo specifico della tecnologia, il cui influsso ormai invasivo ha determinato, con l’avvento della post modernità ed il crollo repentino dei concetti tradizionali di industria e, correlatamene, di occupazione, l’aumento esponenziale di produzione artistica ed artisticizzante che balza ormai evidente ai nostri occhi, primo manifestarsi di quella società estetica propugnata dalle avanguardie storiche novecentesche. Nella seconda metà degli anni ’80 le novità principali furono due, una “calda”, l’altra “fredda”. Da un lato una pittura che dal neoespressionismo virava in direzione di uno stile insolito, fortemente caratterizzato da un approccio istintivo con i linguaggi metropolitani, come la pubblicità, il fumetto, la moda, dall’altro un linea di “nuova astrazione” geometrizzante, espletata sia bidimensionalmente che a livello installativo, con il risorgere di forme legate alla sperimentazione moderna che fecero parlare di una sorta di “ritorno all’ordine”, anche se quelle immagini sapevano adeguarsi alla soffice curvatura dell’elettromagnetismo ed alle tentazioni offerte dai nuovi materiali e ritrovati plastici. Jannini si fa trovare pronto per questa svolta, che gli consente di delineare una volta per tutte i contorni della sua poetica, con opere non semplici, di assoluta originalità, realizzate con tempismo singolare per un personaggio del tutto refrattario a facili adeguamenti alle mode del momento. Gli ambiti spaziali occupati dagli “scudi” mantengono la loro imponenza, ma vengono sostituiti, con fare graduale, da un diverso repertorio di oggetti, con un criterio assemblativo che, a sua volta, si collega, con modi diversi ma spirito affine, all’operare del Jannini “ambulante”. Alla stregua del nomade postmoderno profetizzato da Macluhan, l’artista continua ad operare come un instancabile raccoglitore. Solo che il suo interesse non è indirizzato agli oggetti del quotidiano tradizionale, il suo sguardo non si rivolge più alle stanche vestigia dell’industria in declino, ammorbante ed alienante, ma si posa più avanti, ipotizza una sorta di “archeologia del presente”, un presente che si consuma con frenetica intensità, e da un giorno all’altro appare inadeguato alla nostra bramosia di consumatori e fruitori dell’immateriale. Con sintetica intuizione sposa un’estetica della tecnologia, ma non avvalendosene, con minore o maggiore capacità, per accrescere le sue capacità manuali d’artista, mostrandocela invece nella sua disarmante nudità d’oggetto o di semplice circuito, per affrancarla dalla sua fredda etereità di essenza impalpabile ed inafferrabile, usandola come insolito collante assemblativo, e rivalutandola, quindi, nella sua insospettabile carnalità di creazione umana. Al tempo stesso egli la integra con elementi tratti dal mondo della cultura e della natura, indicandoci la strada di una possibile ecologia della mente, che ci mostri le correlazioni e i sottili intrecci esistenti tra le parti di una totalità in continua evoluzione, in perenne cortocircuito spazio-temporale, e la necessità di andare oltre i limiti fissati dalla raziocinante volontà misuratrice e quantitativa del metodo cartesiano, in una fase storica in cui arte e scienza, dopo avere definito una volta per tutte i loro confini e le loro regole, possono di nuovo instaurare un dialogo fecondo fonte di reciproca stimolazione. Le opere dei primi anni ’90, inaugurati con la partecipazione ad una riuscita edizione della Biennale veneziana, curata da Renato Barilli, forse l’ultima in grado di rappresentare con obiettività la scena artistica italiana emergente, sono caratterizzate da una più evidente imponenza , con una predominante del repertorio “hardware” sotto forma di forme fisiche massicce ed imponenti, alleggerite nella loro prestanza dall’eleganza compositiva dell’artista, a loro volta dialoganti con il software che permette la circuitazione e la diffusione dei dati, come nella relazione tra cuore e circolazione sanguigna, ad indicare un’ ulteriore e possibile analogia. La poetica dell’oggetto ricontestualizzato si abbina alla volontà di rinnovare il tradizionale linguaggio dell’installazione, non solo quella “moderna”, che in Jannini si ripropone in nuova veste, ma anche quella di recente derivazione “poverista”. Nella dialettica tra i due poli tecnologici si insinuano discreti brani di quotidiano, di storia e di natura, così come elementi tratti dalla biografia e dal passato dell’artista, collegati da luci al neon di tonalità azzurrognola, atta a simboleggiare efficacemente la cerebralità del procedimento.
Nei lavori recenti assistiamo ad una predilezione per toni più misurati e raccolti, per un ritorno della bidimensione o ad installazioni in scala ridotta, adatte ad ambienti più intimi e ristretti. In queste opere abbiamo una predominanza del “software”, adoperato come sfondo, cornice o nucleo interno. Jannini, sempre fedele alla sua vocazione di collezionista di tutto quanto esiste o, più in esteso, di cui ipotizza possibile l’apparizione, conduce in essere un meticoloso lavoro classificatorio delle specie animali, vegetali, e finanche di quelle aliene, sempre integrate, in dialettica armonia, con quel reticolo di microchips che oggi costituisce il nostro reale e, tra breve, null’altro sarà che l’ennesima vestigia del passato. Ma la fervida creatività di Jannini sta conoscendo una fase particolarmente feconda e ricca di soddisfazioni professionali, il cui punto di eccellenza, da un punto di vista del riconoscimento istituzionale, è stato rappresentato dall’antologica svoltasi, nel febbraio 2004, presso la Galleria d’Arte Moderna di Gallarate. Attualmente è in corso una sua personale presso la Fusion Art Gallery di Torino, che ha suscitato un vivo interesse presso il pubblico subalpino. Jannini ha presentato una serie di lavori in prevalenza recenti, quasi tutti centrati sulla dialettica natura / cultura, installazioni a parete dalle tinte vive e squillanti dove limoni, mele ed altri elementi familiari provenienti dal mondo vegetale erano posti su supporti estroflessi e mostravano, da lievi fenditure poste alla loro sommità, l’inquietante presenza di circuiti di microchips. Di particolare rilievo una scultura parietale dove una cesta di pomodori “contaminati” armonicamente dall’invadenza tecnologica si presenta gelosamente custodita e protetta da una teca di plexiglas, a donarle un tocco di soave sacralità, un’opera il cui rilievo formale ed il senso di sintesi espressiva sono degni di figurare accanto alle prove migliori dell’oggettualismo concettuale americano venuto alla luce negli anni ’80, quello di Steinbach, Koons e Bickerton, per intenderci, con l’aggiunta dello scarto linguistico fornito da un’ironia tutta mediterranea. Ironia che contraddistingue una delle ultime opere di Jannini, di cui è prevista la presentazione in occasione della prossima personale in programma presso la Giarina di Verona nel febbraio 2005. Il titolo dell’imponente installazione è “Il Grande Fardello” ed il suo fine ultimo, per ammissione dell’artista, è quello di parodiare, con ludica e soffice ferocia, il mondo marcescente dei reality show, emblema della banalità che pervade il nostro universo antropologico, eppure specchio assolutamente attendibile di quello che è il livello “medio” della nostra società, società occidentale nel suo complesso va sottolineato, poiché l’Italia, almeno per ora, si è sottratta agli estremi di assurdità e cattivo gusto che hanno caratterizzato la programmazione di questo tipo di trasmissioni in altri paesi, i quali, però, generalmente dimostrano una attenzione molto maggiore verso la divulgazione culturale televisiva. L’opera rappresenta una efficace “summa” della poetica di Jannini, sempre ben oscillante tra i poli estremi dell’ironia e della serietà, della leggerezza e del sublime, in grado di armonizzarsi in un rigoroso equilibrio formale. “Il Grande Fardello” si presenta alla stregua di un tavolo apparecchiato per un brindisi e costituito da sette moduli, tre attraversati da rotoli di false banconote da 500 euro, all’interno di uno dei quali è inserito un cesto di frutta. Altri tre moduli sono costruiti con la familiare cifra stilistica di Jannini, quella che rende immediatamente riconoscibile un suo lavoro, cioè bande di microcircuiti illuminati, dove poggiano una serie di bottigliette di acqua minerale recanti la sigla del “Grande Fardello” di cui viene ripreso, dall’originale, il simbolo dell’occhio. Nel modulo centrale si fanno notare quattro perizomi femminili di colore rosso, messi in tensione lungo due binari di alluminio, mentre sopra la terza striscia di microcircuiti sono allineati dodici calici con relative cannucce. A concludere la complessa installazione, ed a marcare la distanza dalle miserie del contemporaneo e dalle sue vacuità, spicca la forza di una striscia di sabbia e pietre vulcaniche prelevate dalla sommità dell’Etna. La sempiternità del mito, l’energia purificatrice della natura pareggiano i conti con la provvisorietà del presente, del “qui ed ora” con cui comunque è necessario convivere e di cui va fornita testimonianza.