Testi critici

Nidi di rondine

di Renato Barilli

Testo in catalogo Antologica al Gam di Gallarate [13 febbraio – 21 marzo 2004]

Ernesto Jannini sottopone all'esame del pubblico, e anche a un'auto-analisi, circa vent'anni del proprio lavoro, approfittando della retrospettiva che gli concede il Museo di Gallarate. E così, come succede in questi casi, non può non mettere a nudo il motivo conduttore che l'ha guidato lungo la sua strada. Direi che si tratta di una reciproca contaminazione tra due momenti così centrali ed essenziali come sono quelli della natura e dell'artificio, del buon mondo così com'è e dell'insidia che esercita nei suoi confronti la crescita incontenibile della tecnologia. A giudicare dai titoli, sembrerebbe che in partenza ci sia un'opzione per i sani e normali manufatti, visto che tra i primi lavori degli inizi '80 compaiono degli “Scudi”; ma sono già forme ambigue, dove la tipologia dello strumento di difesa o di copertura risulta aggredita da una specie di umore naturale che la macula, le distende sopra una screziatura: come di ossi di seppia che hanno pur dovuto subire qualche fatica, a essere estratti e messi a nudo. O invece, capovolgendo il discorso dall'arte alla natura, si potrebbe parlare anche di strane uova di Pasqua, dove il puro prodotto fisiologico della razza dei pennuti sottoposti a una ridipintura, che lo destina anche a oggetto rituale. Ma certo l'incontro-scontro tra i due aspetti, al momento, si dà con qualche scompenso e confusione, non risulta pilotato con energia e con chiarezza di idee. Una forte crescita Jannini la registra attraverso la sua partecipazione a una mostra organizzata dall'amico Boris Brollo nel 1988 ad Auronzo di Cadore, “Koinè a Nord Est”, a cui egli è presente con “Profetico ma non troppo”, ed è stato in quell'occasione che ho avuto il mio primo incontro con la sua arte, riportandone una forte emozione. Infatti in quell'opera l'ibridazione reciproca tra i due momenti si precisa notevolmente, e anzi a dire il vero sembra che il momento oggettuale-tecnologico abbia una decisa prevalenza, manifestandosi oltretutto nelle forme più dure e ingombranti che allora si potessero dare, in nome insomma di una compiaciuta ostentazione dello hardware: sono come cisterne, contenitori, tubature per qualche gas, che si impadroniscono della vegetazione altrimenti sottile e flessibile di un vegetale. Questo si difende ancora attraverso la frastagliatura di foglie gigantesche, ma non si sa per quanto tempo ancora il fragile e sinuoso motivo fitomorfo possa reggere alla prova. Quel “Profetico ma non troppo” sembra doversi risolvere con la facile profezia che la macchina sta vincendo sulla natura, e che tra breve si darà una sostituzione totale tra l'una e l'altra, ovvero quello spettacolo di tubature a gomito, di verniciature industriali appare chiamato a estendersi sempre più, fino alla vittoria ultima. Certo è che, avendo visto Jannini a una prova così convincente e spettacolare, mi sentii indotto a proporne il nome per l' “Aperto” della Biennale di Venezia 1990, essendo stato posto tra i commissari selezionatori. E fu una selezione molto significativa degli umori di quel momento, visto che vi comparivano, tra gli altri, Jeff Koons, Ashley Bickerton, Cady Noland, Wim Delvoye.
Ma subito dopo, e del resto già nell'opera con cui di fatto Jannini partecipò alla rassegna veneziana, avvenne in lui una sostituzione, ovvero lo scontro tra natura e techné fu affidato, per quest'ultima, a una sua variante più avanzata e penetrante, il che in formula si può anche indicare come un passaggio dallo hardware al software: ovvero, l'aggressione della componente tecnologica da quel momento, nel dramma impostato dal nostro Jannini, sarebbe stata affidata a un reticolo di relais, di cavetti, di fili policromi propri dell'interno dei nostri computer: magari, tanto per fare un passo alla volta, non si trattava ancora dei microcircuiti affidati al silicio, ma appunto a un ancora macroscopico e tangibile tessuto di fili, a una matassa fluente, gonfia, tale insomma da fare concorrenza alle erbe prative, a una distesa di graminacee. Il che significa anche che lo scontro non si sarebbe dato, per il futuro, in termini di radicale opposizione, bensì di sottile e ambigua chiamata in causa reciproca, quasi con una suddivisione di parti e di responsabilità, in un processo di ibridazione in cui non sarebbe stato così facile rintracciare il bandolo: un nodo gordiano da prendere così come si imbroglia sotto i nostri occhi, senza tentare di risolverlo con un taglio brutale.
E proprio in quest'ottica di sottile collaborazione incrociata poco dopo, nei primi anni '90, Jannini è giunto a darci una delle sue opere migliori e più convincenti, tale che potrebbe anche essere proposta esemplarmente come un simbolo dell'attuale stato della nostra condizione umana. Il titolo corrisponde a una constatazione letterale, “Nidi di rondine”, e sono appunto nidi d'uccello, cioè una creazione in cui proverbialmente natura e cultura s'incontrano in un' ora zero di indistinta coproduzione. E tuttavia queste formazioni squisitamente naturali osano mettersi sotto la protezione di un pannello di microcircuiti, scelto in una di quelle sue incarnazioni arcaiche, ormai pronte per il museo, di cui il nostro artista si compiace, forse proprio perché l'intelligenza artificiale non si allontani troppo da una vicinanza con la buona fisicità degli oggetti naturali. Come dire, insomma, che tra natura e artificio il matrimonio “s'ha da fare”, che deve cessare il sospetto reciproco, tra le due componenti; che le sane produzioni dettate dal nostro istinto animale non devono diffidare delle creazioni della controparte, vederle come insidie intollerabili, ma anzi è possibile andare a mettersi sotto la loro protezione. O viceversa, è lecito invocare il classico proverbio secondo cui l'acqua cheta corrode i ponti, forse le timide ma insistite, cocciute, mai arrese formazioni naturali sono capaci di riprendersi tutto il terreno perduto e di andare a incrostare con le loro tessiture la forza bruta e spoglia degli apparati tecnologici: col che si ritrova in definitiva la situazione di partenza.
Vengono ancora tante altre opere, lungo gli anni '90, in cui il software, ovvero la tramatura, la foresta lussureggiante dei relais domina sovrana, ma d'altra parte non riesce a imporre fino in fondo la propria regolarità, qualche piccolo disordine, qualche smagliatura interviene, in quel lucido ordito, così come una calza si sfila, o un cristallo si incrina. E così il disordine fa capolino, pur sempre con molta discrezione, quasi in punta di piedi, nel bel mezzo del territorio che sembrerebbe dover essere consacrato al trionfo dell'ordine più puro e inflessibile. Forse, al limite, si potrebbe anche dire che uno dei due termini tradizionali del contrasto impostato da Jannini, la natura, è uscito definitivamente di scena, e ora lo scontro si pone soltanto tra gradi e livelli diversi ma all'interno del continente tecnologico, vincitore definitivo della disputa millenaria. Infatti, in molte opere dei '90, il nostro artista mette a confronto sistemi diversi di comunicazione, dai sofisticati relais e microcircuiti del software elettronico, ad altri assai più remoti e arcaici, in quanto ancora appoggiati a buste e carta da lettere, o a rotoli pronti a dipanarsi per ospitare tracciati grafici. Più che giocare di opposizioni, pare che l'artista insista sul tema di possibili travasi, trasposizioni, slittamenti da un sistema all'altro, mettendo a confronto gli ultimi ritrovati del progresso con procedimenti antichi, immemoriali, fermi alle conquiste di un buon artigianato d'altri tempi.
Ma si ritorna al dramma delle origini, e nei modi più fermi e calzanti, con le opere degli inizi del nuovo millennio, opere che in qualche modo potrebbero prestarsi anch'esse a fornire i simboli perfetti di un nuovo modo d'essere e di vivere. La natura sembra aver riconquistato tutto il terreno perduto, mostrandosi a noi col confortevole aspetto di sani, tondi, invoglianti frutti o ortaggi: mele o pomodori turgidi, da incitare ad allungare la mano per afferrarli, e da predisporre l'intero apparato masticatorio e degustativo al piacere di addentarli, senonché, se li si apre, risulta che il baco si è ormai impadronito di loro, ha scavato pazientemente nel loro interno sostituendo pezzo per pezzo la buona polpa con un orrido reticolo di microcircuiti. Il nemico è penetrato all'interno della rocca, l'ha conquistata, e ora ne lascia all'esterno solo delle spoglie che si limitano a simulare una normalità degna di lontane stagioni. Ma siamo sicuri che in tutto ciò sia da vedere solo un messaggio negativo, o di vittoria a senso unico di una forza ostile all'uomo? Converrebbe ricordarsi dell'insegnamento che Sartre pone alla base del suo saggio principale, “L'essere e il nulla”, dove sta al nulla, in apparenza un principio negativo e distruttivo, il ruolo ben diversamente attivo di rappresentare l'intervento della nostra coscienza. Coscienza, spiega Sartre, che si comporta proprio come un verme, intento a scavare cunicoli dentro la polpa, altrimenti un po' troppo piena e inerte, della natura.

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